mercoledì 29 giugno 2011

Compassione

In rete ho trovato svariate polemiche riguardo una manifestazione, il Veggie Pride, tenutasi a Milano a giugno. Sinceramente ignoro perché l'iniziativa, o forse i suoi organizzatori, scaldino così tanto gli animi. Quello che invece mi ha fatto riflettere è il tenore delle critiche mosse: senza divagare elencandole, il punto che mi ha colpito è che molte vertevano sulla capacità o meno della manifestazione di fare una buona propaganda al veganismo.
Non mi soffermo su quanto denoti una scarsa cultura politica l'idea che una manifestazione abbia come obiettivo quello di spiegare e propagandare una scelta di vita, mi interessa piuttosto una domanda collaterale: si può convincere qualcuno a diventare vegano?

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Poco tempo addietro ho ricevuto un forte scossone, leggendo – con non poche difficoltà – un testo di Ralph Acampora, Fenomenologia della Compassione (ed. Sonda), e tutto sommato credo che lo sconvolgimento procuratomi sia collegato proprio alla suddetta domanda.
Probabilmente gran parte delle persone che parlano e si attivano per convincere più gente possibile a diventare vegan si muove avendo in mente la medesima idea: il processo di cambiamento individuale è strettamente razionale, anzi, intellettuale; e di conseguenza il cambiamento lo si stimola con gli strumenti della logica, dopo aver svolto una prima fase informativa. In pratica: ti faccio vedere delle cose che non conoscevi, poi ti convinco di come da queste cose ne deve necessariamente (logicamente) discendere che l'unica scelta accettabile sia di diventare vegan. Evidentemente – aggiungo: purtroppo – così non funziona, e questo credo che chiunque abbia fatto un po' di attività possa confermarlo. Dove è, allora, il problema?

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Quello che ho tratto dalla lettura di Acampora è che tipicamente l'uomo della nostra epoca vive nella convinzione del primato dell'intelletto, inteso come una capacità specifica ed esclusiva dell'uomo, il quale la usa per costruire se stesso: l'idea che ha di sé, l'idea che ha del mondo, l'idea che ha della posizione che deve rivestire nel mondo. Tale idea di intelletto presuppone una separazione netta fra esso ed il mondo sensibile che ci circonda; l'intelletto agisce al di sopra del mondo sensibile, e in fondo non sembra aver bisogno di esso per poter correttamente procedere. L'immagine che abbiamo è quindi lineare, dall'alto in basso: l'intelletto, dalla vetta del suo universo immateriale, costruisce le idee con cui noi, più in basso, decidiamo come interagire con il resto del mondo sensibile – che ovviamente si trova nella parte più bassa (infima) di questo schema.
Quello che invece mi sono trovato a capire, leggendo Acampora, è che il processo con cui formiamo le idee (e quindi la nostra dimensione etica) non può seguire questo schema così netto e gerarchico. Noi siamo prima di tutto un corpo, e tutto ciò che viviamo lo viviamo attraverso di esso, attraverso le sue percezioni. Il continuo scambio con il mondo circostante, che è poi il succo della nostra esistenza, è imprescindibile dalla nostra corporeità. Uno dei fenomeni fondativi della nostra esperienza è proprio la compassione, non certo nel senso cristiano di pietà per i meno fortunati, ma nel senso originario (cum pati) di sentire la sofferenza altrui: una esperienza diretta, non mediata, né derivabile dal raziocinio. Credo che chiunque, pensando ad incrociare lo sguardo di una persona (o di un animale) che soffre, possa capire cosa significa. E' nella nostra stessa dimensione esistenziale la possibilità di percepire direttamente l'altro, in uno scambio in cui il soggetto diventa oggetto dell'azione percettiva, e viceversa, e questa esperienza non può essere derivata per via intellettuale ma solo vissuta.
Dunque, è proprio attraverso questa esperienza diretta che nel corso degli anni costruiamo la nostra concezione del mondo, e la nostra etica. Sarebbe difficile sostenere che, senza questa modalità di essere nel mondo, potremmo lo stesso costruirci l'idea, ad esempio, che è sbagliato uccidere: perché questa non potrà mai discendere da un puro ragionamento astratto, se prima non si è in qualche modo provato sulla propria pelle – o meglio sul e con il proprio corpo – cosa significhi soffrire, e se non si è percepita carnalmente la “sensazione” che anche chi ci sta di fronte può provare questa esperienza.
Per non dilungarmi oltre, penso che questa (stringata) interpretazione porti a dire che difficilmente si potranno cambiare le idee di una persona con delle semplici spiegazioni/informazioni; in fondo credo emerga dalla storia personale di ognuno il fatto che il cambiamento avviene non tanto per via razionale quanto per un processo che riguarda il nostro vissuto reale e concreto, una lenta evoluzione in cui viviamo il cambiamento attraverso l'esperienza.

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Ora, mi rendo conto che probabilmente la mia esposizione di quanto mi è restato dalla lettura di “Fenomenologia della Compassione” è confusionaria e poco organica – e d'altronde siamo in sede di blog, quindi mi si perdonerà se scrivo velocemente nei ritagli di tempo, senza eccessive ricerche e revisioni. Nonostante questo, spero sia emerso qualche elemento per supporre che non basta far vedere il più possibile immagini di mattatoio o urlare più forte che la carne è assassinio; e per cominciare a pensare che forse non si tratta di convincere le singole persone, ma di agire per una società futura in cui ci siano le condizioni per far nascere e prosperare un'etica differente. Un mondo in cui ogni individuo possa vivere delle esperienze tali da consentirgli la formazione di un'etica compassionevole. Il discorso non si conclude certo qui, ma per ora mi accontento di aver cominciato ad abbozzare qualche nota su un tema che trovo particolarmente stimolante.

11 commenti:

  1. Molto interessante! Devo proprio leggerlo questo libro :)

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  2. Lo consiglio vivamente. Considera che è un testo filosofico - nel vero senso della parola - e dunque presuppone un po' di dimestichezza con il linguaggio "tecnico" della filosofia. Presuppone inoltre un poco di conoscenza di alcuni autori (diciamo principalmente quelli relativi alla fenomenologia e all'esistenzialismo). Fra l'altro la lettura del libro di Acampora mi ha fatto conoscere un autore, Merleau-Ponty, di cui non avevo mai sentito parlare e che è molto interessante (molto del discorso sulla corporeita' Acampora lo prende proprio da lui). A presto, ciao

    A

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  3. Capisco... ma dopo quel mattone che è "I diritti animali" di Tom Regan, che sono riuscita faticosissimamente a leggere in toto, non mi spaventa più nulla :D

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  4. diciamo che ci sono delle eccezioni, un discreto numero di persone con cui ho usato il metodo..."tradizionale" sono diventate vegan e al momento tendono a rimanerlo

    questo insieme naturalmente ad un aspetto più "emotivo" e soprattutto insieme all'emulazione: semplicemente vivendo e dimostrando vivendo che si può fare, si vive bene,etc.

    ogni soggetto che si ha di fronte può avere varie modalità di approccio e sta al vegan capire dove poter fare breccia per colpire corde sopite dall'abitudine

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  5. Cara Ariel,
    non metto in dubbio quanto dici. La mia riflessione era diversa. Intendo dire: senza offesa, ma tu non hai "fatto diventare" vegan nessuno, ma hai contribuito a dare elementi su cui riflettere a delle persone, all'interno del loro percorso esistenziale. La domanda e': bastano gli elementi "intellettuali" a far compiere una scelta del genere, oppure la costruzione di un modo di sentire diverso sono piu' numerosi e complessi? Ovviamente io sostengo la seconda ipotesi - il che non significa che il lavoro che si fa per "spiegare" il veganismo sia inutile, al contrario!

    Da questo poi discende un'altra domanda: se il nostro lavoro debba essere spinto da una vocazione simil-missionaria, ovvero basata sul concetto di dover "convertire" ogni singolo con cui veniamo in contatto. Spero di aver tempo di scrivere un po' su questo tema, perche' mi pare molto importante.

    Grazie, a presto! A

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  6. E' proprio questo, il punto: passare dalla persuasione dei singoli al tentativo di costruzione di una società nuova. L'antispecismo altro non è che la visione di un MONDO migliore, non di singoli e isolati progressi.
    Il che non significa che la scelta del singolo sia da disprezzare, tutt'altro. Significa (semplicemente?) imparare a pensare un po' più "in grande".
    Proprio un bell'articolo, complimenti!

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  7. Ciao!
    Mi sembra di capire che Acampora riprenda le idee che già erano state espresse dagli empiristi (John Locke in particolare, se non ricordo male) ed in particolare dai sensisti (Condillac): l'idea che abbiamo del mondo - ed il posto che dovremmo occupare in esso - non può infatti prescindere dall'esperienza - propria dei sensi, quindi anche corporea, quindi empirica - attraverso la apprendiamo determinate convinzioni.

    Comunque, senza stare tanto ad entrare nel merito di questioni filosofiche così complesse, mi trovo solo in parte d'accordo con le tue riflessioni, in quanto mostrare e spiegare la contraddittorietà di certe argomentazioni a sostegno dello sfruttamento animale e soprattutto evidenziare quanto molte delle convinzioni degli specisti sono solo il frutto di condizionamenti culturali, a me sembra molto utile.
    Certo, l'empatia (e che comunque è sentimento ancor più difficile da "insegnare") resta il primo passo per promuovere "l'altro" a specchio di noi stessi (nell'altro rivedo me stessa), però tantissime persone sono speciste perché ritengono che trattare gli animali come oggetti o come esseri comunque inferiori sia "normale", ossia la "norma", che è ciò che la maggioranza fa e pensa ed è su questa presunta “normalità” che si appoggiano e fanno leva le loro giustificazioni, ritenendo, erroneamente, che se una cosa la fanno tutti allora deve essere per forza giusta e “naturale”, quando invece è solo un pregiudizio culturale.
    Allora un discorso di natura propriamente logica (quale quello che porta avanti ad esempio Tom Regan ne I diritti degli animali, già sopracitato da Thegirlfromvega), può essere utile proprio per smantellare certe credenze erronee.

    Poi secondo me il tipo di approccio da adottare può variare anche a seconda della persona che si ha di fronte (e sta alla nostra sensibilità comprendere con chi ci stiamo interfacciando).
    A me per esempio non piacciono molto i discorsi utilitaristici, del tipo: "bisogna essere vegani perché mangiare la carne fa male o perché si contribuisce alla desertificazione e deforestazione", in quanto le mie personali motivazioni sono essenzialmente di natura etica (non mangio gli animali perché sono esseri senzienti come me, soffrono come me e quindi non vorrei mai fare a loro ciò che non vorrei fosse fatto a me), però mi rendo conto che su talune persone invece un discorso di tipo utilitaristico potrebbe avere più presa.
    Poi l'esempio - il nostro, di chi ha compiuto una scelta nel pieno rispetto di ogni essere vivente - conta moltissimo. Mostrare a chi ci sta attorno che si può vivere benissimo anche senza uccidere animali serve a far riflettere (dapprima scatena un sentimento di inadeguatezza, quindi di rifiuto, ribellione, anche rabbia e violenza verbale, ma poi segue anche la riflessione). Già il suscitare un moto di stizza in chi al ristorante ci vede ordinare un piatto di pasta al pomodoro invece che gli spaghetti con le vongole è sintomo di qualcosa: e allora qui, per tornare al discorso di Acampora, rientriamo a pieno nell'utilità di coinvolgere tutti i sensi. Arrabbiarsi, discutere implica comunque un coinvolgimento anche sensoriale, anche se apparentemente può sembrare che interessi solo l'area dell'intelletto.
    Per questo discuterne, parlarne, scriverne vale, a mio avviso, tanto quanto smuovere direttamente l'empatia. Ché il parlare, l’argomentare non è un’esperienza astratta rispetto al corpo.
    (segue nel commento successivo)

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  8. (continua da commento precedente)

    Finisco riportando la mia personale esperienza: amante degli animali lo sono stata sempre (proprio per innata simpatia verso di essi), ma sono diventata vegetariana (ora praticamente quasi vegana) anche dopo aver letto i libri di Regan, di Singer, di Rifkin, aver visto documentari, video, foto e, soprattutto, avendo avuto la fortuna di avere accanto un uomo già vegetariano da molti anni prima di me, che mi ha mostrato con il suo esempio - silente, in quanto non mi ha mai “imposto” nulla - quanto fosse meraviglioso poter guardare negli occhi un animale - un qualsiasi animale - sapendo che mai più le mie mani avrebbero contribuito - direttamente o indirettamente - a versarne il sangue.
    Complimenti per il tuo blog e le tue argomentazioni.
    Se ti interessa un confronto, le mie sull'antispecismo, nel mio blog, le trovi principalmente raccolte nei post dal titolo "Olocausto invisibile", ma poi anche sparse negli altri che trattano di altri argomenti, in quanto, anche quando parlo di un film, libro o di altro, non perdo mai occasione per dire qualche parolina a favore dell'antispecismo e della lotta contro lo sfruttamento degli animali.

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  9. P.S.:
    scusa, nella prima parte del mio primo commento ho saltato una parola:

    "attraverso LA QUALE (parlavo dell'esperienza empirica) apprendiamo determinate convinzioni"

    (non è per voler essere puntigliosa, ma rileggendomi mi sono resa conto che la frase, senza quella parola, aveva poco senso) ;-)

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  10. Cara Biancaneve,

    grazie per il lungo commento. Ti propongo alcune risposte - non sempre complete nè organizzate, colpa della flemma domenicale!

    Il riferimento all'empirismo è solo in parte corretto. Premesso che su Locke - come si soleva dire a scuola - non sono preparato, credo che l'idea di base dell'empirismo, ovvero il fondamento della conoscenza sull'esperienza empirica, rientri nel discorso di Acampora solo di striscio, poichè le radici del suo discorso sono più nella fenomenologia e nell'esistenzialismo. La differenza sostanziale credo stia nel fatto che per gli empiristi comunque resta una netta separazione fra quello che e' il nostro mondo razionale ed il nostro mondo carnale; di conseguenza la percezione è vista semplicemente come un "ponte" che trasporta informazioni dal mondo materiale al nostro io pensante. Sebbene gli empiristi fossero in disaccordo con il razionalismo cartesiano (che appunto si fregiava di ripetere "cogito ergo sum") alla fine condividevano questa sorta di intellettualismo per cui il nostro mondo delle idee si trova su una dimensione superiore - e definitivamente distaccata - dal nostro essere materiale; e semplicemente le due scuole differiscono per quanto riguarda il come si formino le idee. Invece quello che io trovo assolutamente condivisibile in quanto dice Acampora (e che comunque come dicevo trae in buona parte dal pensiero esistenzialista) è la profonda unità di corpo e mente, e l'elaborazione alla luce di questa ottica su cosa voglia dire "percezione" ed "esperienza", e come si modifichi ed evolva il nostro essere alla luce di queste.

    D'altronde ci tengo a precisare - speravo fosse chiaro - che la mia critica è semplicemente una riflessione (spero di respiro ampio, o almeno quello era il mio obiettivo) e non implica che sia contrario alla diffusione "porta a porta" di idee antispeciste e vegane (anzi, al contrario non posso che essere favorevole a tali attività). Quello su cui volevo vertere... beh, credo emerga dalle tue stesse parole, infatti dici che il tuo cambiamento personale e' passato attraverso l'elaborazione razionale di alcuni testi, PERO' a questo era antecedente un tuo amore per gli animali. Proprio di questo volevo riflettere, ovvero del fatto che le nostre scelte sono frutto di una complessa somma di esperienze che facciamo nella vita, e non si possono ridurre sicuramente alla sola razionalizzazione di argomentazioni che ci vengono proposte.

    Vorrei poi farti notare una cosa che dici, e che nel mio modo di vedere e' una piccola contraddizione; anzi il contrario, una tautologia: dici "...molte delle convinzioni degli specisti sono solo il frutto di condizionamenti culturali...", ma non c'e' dubbio che la nostra esistenza e' calata in un contesto culturale - e proprio per riagganciarmi a quanto dicevo, la il contesto culturale non e' dato solo dai concetti "razionali" che ci vengono tramandati per esempio a scuola, ma e' dato dal complesso di esperienze che viviamo nella nostra comunita' d'appartenenza, e che ci influenza da diversi punti di vista. Quindi, dicevo, e' proprio il contesto culturale in cui siamo immersi che ci influenza e ci porta ad avere delle convinzioni; e proprio perche' questo "sistema" di idee che ci formiamo ci appartiene come esperienza esistenziale, e non solo come bagaglio di idee coerenti e coese fra loro (anzi raramente lo sono), non e' facile effettuare delle modifiche solamente mostrando errori logici o contraddizioni.

    Per ora mi fermo qui, comunque e' stato un piacere scambiare due chiacchere, di certo quando avro' tempo leggero' il tuo blog e credo avremo ancora modo di interagire. Grazie, a presto. A

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  11. Cara Eloisa,

    condivido quanto dici, e spero di avere in futuro tempo di approfondire. Come giustamente dici, non per disprezzare od ostacolare il lavoro che ognuno di noi singolarmente puo' fare con e su altri singoli; pero' dovremmo avere il coraggio di formarci una idea politica - e va da se' che in questa fase storica il problema principale e' che gran parte delle persone intende il termine "politica" in modo assolutamente distorto e dunque si rifiuta anche solo di provare a pensare in un modo che sia solo basato sul percorso del singolo individuo.

    Grazie, a presto. A

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