martedì 5 luglio 2011

Voce

Alla sera ogni tanto mi lascio andare alla visione di una serie televisiva chiamata “The Mentalist”. Trovo il protagonista particolarmente fascinoso, ma senza divagare: nella serie il suddetto è un esperto della mente umana, consulente della polizia, e sfrutta la sua conoscenza per capire – e spesso manipolare – le persone al fine di risolvere i casi. Insomma, un piacevole poliziesco con molti risvolti psicologici.
Ad esempio, in un episodio il protagonista (Patrick Jane) adotta una curiosa tattica: trovandosi insieme al sospettato sul luogo dell'omicidio e sapendo che l'arma del delitto dovrebbe essere nei pressi – e ovviamente il sospettato non vuole che venga trovata – costringe questo a tradirsi con il linguaggio del corpo. Portandolo in giro, apparentemente a casaccio, Patrick osserva attentamente i cenni, gli sguardi ed il linguaggio del corpo del supposto criminale, e da essi riesce a dedurre dove il sospettato non vorrebbe che la polizia guardasse, sebbene tenti di essere impassibile e non tradirsi. Fino a trovare l'oggetto usato per il delitto.
L'idea di base – credo condivisa da tutti – è che per noi esseri umani il linguaggio non si ferma solamente alla parola. Riusciamo ad esprimere molto anche attraverso la mimica, lo sguardo, il corpo. E spesso in modo non conscio né controllabile; tanto è vero, per fare un esempio, che talvolta è facile identificare una persona che mente, dato che la sua gestualità ed il linguaggio corporeo possono dirci l'opposto di quanto detto verbalmente. Siamo portati a comunicare non solo con la voce, ma con tutto il corpo, abbiamo – forse innata, come elemento fondativo del nostro essere – una forte attitudine verso la comunicazione (intesa sia come possibilità di esprimerci, sia come capacità di interpretare gli altri). Siamo in grado di farlo in mille modi, anche laddove possa sembrare difficile, si pensi ad esempio a come due persone di lingua e cultura totalmente diverse possano comunque riuscire a comunicare a gesti.

~ o ~ o ~ o ~

Non avere voce è una condizione ontologica? Intendo dire, quando pensiamo e definiamo una qualche categoria di esseri come “senza voce”, pensiamo che sia stato un qualche tipo di Fato ad assegnare loro tale sventura, e che non possano sfuggire da tale condizione? Purtroppo mi pare che nella maggior parte dei casi la risposta sia positiva. Temo che molto spesso, quando, animati dai migliori propositi, vogliamo dare voce a chi non ha voce, ci ritroviamo senza volerlo in una ottica paternalistica: noi, fortunati detentori di una capacità tanto importante, ci sentiamo obbligati ad aiutare chi ha avuto la sventura di venire al mondo senza la possibilità di avere una voce.
Ovviamente sto pensando agli animali, benché non siano l'unica categoria considerata senza voce; di sicuro sono la categoria per cui siamo maggiormente convinti che una voce proprio non l'abbiano né potranno mai averla – da cui la necessità di usare la nostra al posto loro. In realtà, fermandosi un attimo a riflettere, ci si può rendere conto che tutti gli animali sono in grado di comunicare, non solo in modo intra-specifico ma senza dubbio anche inter-specifico. Certo con modalità diverse dalle nostre, eppure in molti casi siamo in grado di comprendere il loro modo di esprimersi senza particolari sforzi – per sostenerlo non servono dimostrazioni particolari se non la banale esperienza di chiunque abbia avuto un gatto o un cane.
Non so a quanti sia capitato di sentire i versi dei maiali quando vengono macellati. Suppongo a molti, contando sia chi magari ha vissuto in campagna, sia chi ha avuto la forza di guardare filmati e documentari su quanto accade nei mattatoi. Ora, non credo proprio che sia necessario un etologo per interpretare le urla di un maiale mentre viene sgozzato come una forma di comunicazione: che indica terrore, dolore, sofferenza, paura. Quelle urla ci dicono chiaramente delle cose: che non vuole essere lì, che non vuole subire quello che sta subendo, che non vuole morire, che sta soffrendo. Dunque come possiamo dire che gli animali non hanno voce?

~ o ~ o ~ o ~

Una delle motivazioni per cui tendiamo a pensare che gli animali non abbiano, intrinsecamente al loro essere, possibilità di comunicare (non hanno voce) potrebbe essere banalmente il nostro vizio di spostare colpe e responsabilità lontano da noi. Mi spiego: quando sosteniamo che gli animali non hanno voce, è come se facessimo loro una colpa dell'essere differenti dagli umani, individuiamo come cuore del problema la loro incapacità di esprimersi in modalità direttamente comprensibili (per noi umani). E dato che non vi esprimete come noi, siete irrimediabilmente diversi da noi, siete altro da noi – da questo diventa poi facile trarre come conclusione che possiamo disporre di voi come meglio crediamo. Probabilmente, nel momento in cui – in buona fede – ci riferiamo agli animali come “senza voce”, avalliamo questa concezione del loro essere altro da noi.
Ma forse, come esseri umani, ci metterebbe molto più in crisi, o quanto meno in gioco, affermare che gli animali una voce ce l'hanno, semplicemente siamo noi a non volerla ascoltare. Loro urlano, ma noi facciamo finta di non sentire, per un solo motivo: ci è comodo fare così.

~ o ~ o ~ o ~

In realtà questo schema non si applica solo agli animali, dato che anche fra di noi umani esistono categorie alle quali in modo più o meno esplicito la comunicazione viene negata. Mi viene in mente un esempio; in riferimento alla condizione femminile, esiste lo slogan “no vuol dire no”, che veicola un concetto (in teoria) molto semplice: se una donna dice no, significa quello che sta dicendo, cioè no. Si sta parlando di sesso, il riferimento è a allo stupro. Molto spesso la difesa dello stupratore, messo di fronte al suo atto, è quello che la donna in realtà lo voleva, lo aveva incoraggiato, lo aveva portato a farlo, e quindi anche quando alla fine diceva “no”, in realtà intendeva “si”. Mi pare un caso emblematico dove il non aver voce deriva da un atto di dominio violento: dato che non si può dire che la vittima non abbia comunicato (e verosimilmente nella stessa lingua dell'aggressore), si ricorre all'escamotage per cui ciò che è detto viene negato e re-interpretato. 

~ o ~ o ~ o ~

Da tutto questo ne viene che forse potremmo fare un passo avanti. Smettere di considerare il problema come se fosse del singolo senza-voce (sia esso animale umano o non-umano), e cominciare ad interpretare la situazione in modo diverso. Dunque cercare di vedere non più solo la supposta condizione del singolo, ma uno scenario dinamico dove i partecipanti sono due; e mentre uno comunica e si esprime (nelle modalità a sua disposizione), l'altro non ascolta, o meglio non interpreta quanto sente, per una precisa e conscia scelta. In questo modo riformuliamo la questione e vediamo la situazione per quella che è, un atto violento dove gli attori sono due: un dominante che decide di non ascoltare, ed una vittima che una voce ce l'ha e la usa, ma purtroppo inutilmente.

1 commento:

  1. Ottime considerazioni.

    Mi rendo conto che anche io a volte ho usato l'espressione "gli animali non hanno voce", intendendo però dire che non riescono a far valere i loro diritti.
    In realtà è verissimo che invece comunicano eccome (fosse anche solo - come purtroppo accade - con urla di dolore).

    Ed il problema della non-comunicazione, come giustamente rilevi, si verifica anche tra umani che usano lo stesso linguaggio, ed avviene ogni qualvolta, anziché prestare un vero ascolto, ci limitiamo a far risuonare nelle orecchie l'eco dei nostri pregiudizi e delle nostre supposizioni.
    Come dire, sentiamo solo quello che vogliamo e ci fa comodo sentire.

    Buona serata :-)

    RispondiElimina