giovedì 16 giugno 2011

Le parole sono importanti?

Periodicamente scatta, sulla stampa nazionale e non, qualche campagna allarmistica riguardante una malattia, una epidemia, un morbo inarrestabile, insomma un qualche accidente che probabilmente ci spazzerà via dalla faccia della terra. E' di questi giorni l'allarme per le morti causate in Germania dal batterio Escherichia Coli, ed è subito partita la caccia all'origine della sua diffusione. Per primo è stato messo alla gogna il cetriolo killer, per la precisione trattasi di cetriolo spagnolo. A distanza di poco tempo – e dopo aver causato un bel po' di danni economici agli agricoltori iberici – l'accusa è stata ritirata per ricadere sui germogli di soia assassini, stavolta di origine tedesca. Quasi immediatamente anche tale sentenza è stata sospesa, pare che neanche i perniciosi germogli siano i veri colpevoli. Unica ipotesi abbastanza certa, che la diffusione del batterio nasca dall'utilizzo di acque inquinate a causa di sversamenti di liquami da allevamenti.
Nel passato recente ci sono stati molti altri casi di epidemie nate dagli allevamenti, e indissolubilmente legate, almeno nel nome, a questo o quell'altro animale. Influenza aviaria, poi suina, mucca pazza e così via. Ogni volta, nel lessico comune il nome dell'animale è stato identificato con la malattia stessa, benché difficilmente sia stato sottolineato come gli allevamenti siano stati focolai di infezione per le pessime condizioni dei loro occupanti (gran numero di animali stipati in spazi angusti, poca pulizia, alimentazione innaturale e molto altro) e che dunque, in ultima analisi, le bestie non sono perfide untrici bensì le prime vittime.

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Ogni giorno ci sono almeno un paio di morti sul lavoro. Questo avviene senza che i mass media se ne curino troppo, ed avviene quotidianamente; solo in casi particolarmente sensazionali viene dato risalto all'avvenuto, come per la tragedia della ThyssenKrupp. Ma anche in quel caso, la sete di eventi sanguinari e drammatici tipica di TV e stampa nostrana si è stranamente placata subito, e l'argomento caduto nell'oblio. Chissà come mai da Vespa non si è mai visto un plastico della fabbrica torinese, seguito da lunghi dibattiti su come e quanto tempo ci abbiano messo gli operai a morire bruciati.
Un tempo li si chiamava omicidi bianchi. Oggi è in voga il termine morti bianche. Ma, per citare Moretti, le parole sono importanti: fra morte ed omicidio passa una grossa differenza. La morte è qualcosa di inaspettato ma ineluttabile, qualcosa che capita (di solito, almeno una volta nella vita) e non ci si può far nulla. Ma l'omicidio è ben altra cosa: ha una causa, o meglio, ha un responsabile che colpevolmente o colposamente è responsabile di qualcosa che poteva benissimo essere evitato. Il fatto che la terminologia sia mutata nel tempo ovviamente non è un fatto casuale.

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Pare proprio che il nostro tempo sia ammalato di una forma acuta di infantilismo, per cui nessuno ha mai responsabilità o colpa di quello che avviene. E' molto rassicurante non dover mai rispondere delle proprie azioni, ma è anche meglio se si può scaricare la colpa su altri – e fortunatamente abbondiamo di Altri a cui addossare pesanti fardelli. Il primo passo pare essere sempre quello di ritoccare il linguaggio in modo che il concetto di responsabilità non sia più veicolato: i proprietari di una fabbrica non si curano di spendere qualche soldo per gli impianti di sicurezza, e a seguito di un incendio muoiono degli operai? Non è certo un omicidio, ma una semplice morte, insomma, è il Fato che ha voluto così. Amen. Preghiamo, e scordiamoci di poter anche solo pensare che i padroni della baracca abbiano una qualche responsabilità. Il livello successivo consiste nello spingersi un po' oltre, e modificare ulteriormente il linguaggio per suggerire che la colpa sia di qualcun altro – possibilmente qualcuno che non sia in grado di difendersi né di controbattere le accuse. E così avviene che se a causa dell'inquinamento prodotto dall'uomo si diffonde l'Escherichia Coli, invece di fare mea culpa per lo mancanza assoluta di controlli su ciò che avviene negli allevamenti (e su quello che riversano nell'ambiente), si addita il cetriolo come pericoloso killer. Certo sarebbe scortese accusare chi inquina suolo e acque – metti poi che perda il lavoro, lo avremmo sulla coscienza per il resto della nostra vita – mentre l'indifeso cetriolo sembra l'elemento ideale a cui addossare tutte le peggiori nefandezze. Lo stesso vale per la mucca, bollata con l'infamante epiteto di pazza, la quale a forza di essere accostata al morbo diviene, per contiguità lessicale, la responsabile della malattia. Non sia mai che ci sfiori il dubbio, e che si dica che tutto è nato per colpa dell'uomo – di come ha organizzato gli allevamenti nel tentativo di massimizzare i profitti fregandosene di tutto il resto – e di come la misera untrice bovina abbia in realtà pagato il prezzo più alto, dato che probabilmente non si possono neanche quantificare il numero di animali abbattuti “per sicurezza”.

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Dunque cetrioli, germogli vari, mucche, maiali sono tutti – sfortunatamente per loro – accomunati da un particolare: sono Altro dall'essere umano, e per questo predestinati a prendersi colpe non loro. Perché per l'uomo a quanto pare l'importante è poter scaricare le responsabilità sempre e comunque su tutto ciò che è Natura (qui intesa nell'accezione semplice di tutto-il-non-umano), et voilà, non c'è più bisogno di chiedersi se quando accade qualche disastro di proporzioni rilevanti forse qualcosa di sbagliato lo avremo pur fatto. Almeno finché i cetrioli non si incazzeranno davvero, e allora vedremo...

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