tag:blogger.com,1999:blog-44477079354661021432024-03-13T01:51:09.957+01:00Le LentiAhttp://www.blogger.com/profile/04986620677294548209noreply@blogger.comBlogger4125tag:blogger.com,1999:blog-4447707935466102143.post-55042430386266562442011-07-05T12:18:00.000+02:002011-07-05T12:18:07.369+02:00Voce<div align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0in;">Alla sera ogni tanto mi lascio andare alla visione di una serie televisiva chiamata “The Mentalist”. Trovo il protagonista particolarmente fascinoso, ma senza divagare: nella serie il suddetto è un <i>esperto</i> della mente umana, consulente della polizia, e sfrutta la sua conoscenza per capire – e spesso manipolare – le persone al fine di risolvere i casi. Insomma, un piacevole poliziesco con molti risvolti psicologici. </div><a name='more'></a>Ad esempio, in un episodio il protagonista (Patrick Jane) adotta una curiosa tattica: trovandosi insieme al sospettato sul luogo dell'omicidio e sapendo che l'arma del delitto dovrebbe essere nei pressi – e ovviamente il sospettato non vuole che venga trovata – costringe questo a tradirsi con il linguaggio del corpo. Portandolo in giro, apparentemente a casaccio, Patrick osserva attentamente i cenni, gli sguardi ed il linguaggio del corpo del supposto criminale, e da essi riesce a dedurre dove il sospettato <i>non</i> vorrebbe che la polizia guardasse, sebbene tenti di essere impassibile e non tradirsi. Fino a trovare l'oggetto usato per il delitto.<br />
<div align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0in;">L'idea di base – credo condivisa da tutti – è che per noi esseri umani il linguaggio non si ferma solamente alla parola. Riusciamo ad esprimere molto anche attraverso la mimica, lo sguardo, il corpo. E spesso in modo non conscio né controllabile; tanto è vero, per fare un esempio, che talvolta è facile identificare una persona che mente, dato che la sua gestualità ed il linguaggio corporeo possono dirci l'opposto di quanto detto verbalmente. Siamo portati a comunicare non solo con la voce, ma con tutto il corpo, abbiamo – forse innata, come elemento fondativo del nostro essere – una forte attitudine verso la comunicazione (intesa sia come possibilità di esprimerci, sia come capacità di <i>interpretare</i> gli altri). Siamo in grado di farlo in mille modi, anche laddove possa sembrare difficile, si pensi ad esempio a come due persone di lingua e cultura totalmente diverse possano comunque riuscire a comunicare a gesti.</div><div align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0in;"><br />
</div><div align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0in;"> </div><div align="CENTER" style="margin-bottom: 0in;"> ~ o ~ o ~ o ~</div><div align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0in;"><br />
</div><div align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0in;">Non avere voce è una condizione ontologica? Intendo dire, quando pensiamo e definiamo una qualche categoria di esseri come “senza voce”, pensiamo che sia stato un qualche tipo di Fato ad assegnare loro tale sventura, e che non possano sfuggire da tale condizione? Purtroppo mi pare che nella maggior parte dei casi la risposta sia positiva. Temo che molto spesso, quando, animati dai migliori propositi, vogliamo <i>dare voce a chi non ha voce</i>, ci ritroviamo senza volerlo in una ottica paternalistica: noi, fortunati detentori di una capacità tanto importante, ci sentiamo obbligati ad aiutare chi ha avuto la sventura di venire al mondo senza la possibilità di avere una voce. </div><div align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0in;">Ovviamente sto pensando agli animali, benché non siano l'unica categoria considerata senza voce; di sicuro sono la categoria per cui siamo maggiormente convinti che una voce proprio non l'abbiano né potranno mai averla – da cui la necessità di usare la nostra al posto loro. In realtà, fermandosi un attimo a riflettere, ci si può rendere conto che tutti gli animali sono in grado di comunicare, non solo in modo intra-specifico ma senza dubbio anche inter-specifico. Certo con modalità diverse dalle nostre, eppure in molti casi siamo in grado di comprendere il loro modo di esprimersi senza particolari sforzi – per sostenerlo non servono dimostrazioni particolari se non la banale esperienza di chiunque abbia avuto un gatto o un cane. </div><div align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0in;">Non so a quanti sia capitato di sentire i versi dei maiali quando vengono macellati. Suppongo a molti, contando sia chi magari ha vissuto in campagna, sia chi ha avuto la forza di guardare filmati e documentari su quanto accade nei mattatoi. Ora, non credo proprio che sia necessario un etologo per interpretare le urla di un maiale mentre viene sgozzato come una forma di comunicazione: che indica terrore, dolore, sofferenza, paura. Quelle urla ci dicono chiaramente delle cose: che non vuole essere lì, che non vuole subire quello che sta subendo, che non vuole morire, che sta soffrendo. Dunque come possiamo dire che gli animali non hanno voce?</div><div align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0in;"><br />
</div><div align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0in;"> </div><div align="CENTER" style="margin-bottom: 0in;"> ~ o ~ o ~ o ~</div><div align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0in;"><br />
</div><div align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0in;">Una delle motivazioni per cui tendiamo a pensare che gli animali non abbiano, intrinsecamente al loro essere, possibilità di comunicare (non hanno voce) potrebbe essere banalmente il nostro vizio di spostare colpe e responsabilità lontano da noi. Mi spiego: quando sosteniamo che gli animali non hanno voce, è come se facessimo loro una colpa dell'essere differenti dagli umani, individuiamo come cuore del problema la <i>loro</i> incapacità di esprimersi in modalità direttamente comprensibili (per noi umani). E dato che non vi esprimete come noi, siete irrimediabilmente diversi da noi, siete altro da noi – da questo diventa poi facile trarre come conclusione che possiamo disporre di voi come meglio crediamo. Probabilmente, nel momento in cui – in buona fede – ci riferiamo agli animali come “senza voce”, avalliamo questa concezione del loro essere <i>altro</i> da noi.</div><div align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0in;">Ma forse, come esseri umani, ci metterebbe molto più in crisi, o quanto meno in gioco, affermare che gli animali una voce ce l'hanno, semplicemente siamo noi a non volerla ascoltare. Loro urlano, ma noi facciamo finta di non sentire, per un solo motivo: ci è comodo fare così.</div><div align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0in;"><br />
</div><div align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0in;"> </div><div align="CENTER" style="margin-bottom: 0in;"> ~ o ~ o ~ o ~</div><div align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0in;"><br />
</div><div align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0in;">In realtà questo schema non si applica solo agli animali, dato che anche fra di noi umani esistono categorie alle quali in modo più o meno esplicito la comunicazione viene negata. Mi viene in mente un esempio; in riferimento alla condizione femminile, esiste lo slogan “no vuol dire no”, che veicola un concetto (in teoria) molto semplice: se una donna dice no, significa quello che sta dicendo, cioè no. Si sta parlando di sesso, il riferimento è a allo stupro. Molto spesso la difesa dello stupratore, messo di fronte al suo atto, è quello che la donna in realtà lo voleva, lo aveva incoraggiato, lo aveva portato a farlo, e quindi anche quando alla fine diceva “no”, in realtà intendeva “si”. Mi pare un caso emblematico dove il non aver voce deriva da un atto di dominio violento: dato che non si può dire che la vittima non abbia comunicato (e verosimilmente nella stessa lingua dell'aggressore), si ricorre all'escamotage per cui ciò che è detto viene negato e re-interpretato. </div><div align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0in;"><br />
</div><div align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0in;"> </div><div align="CENTER" style="margin-bottom: 0in;"> ~ o ~ o ~ o ~</div><div align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0in;"><br />
</div><div align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0in;">Da tutto questo ne viene che forse potremmo fare un passo avanti. Smettere di considerare il problema come se fosse del singolo <i>senza-voce</i> (sia esso animale umano o non-umano), e cominciare ad interpretare la situazione in modo diverso. Dunque cercare di vedere non più solo la supposta <i>condizione</i> del singolo, ma uno scenario dinamico dove i partecipanti sono due; e mentre uno comunica e si esprime (nelle modalità a sua disposizione), l'altro non ascolta, o meglio non interpreta quanto sente, per una precisa e conscia scelta. In questo modo riformuliamo la questione e vediamo la situazione per quella che è, un atto violento dove gli attori sono due: un dominante che decide di non ascoltare, ed una vittima che una voce ce l'ha e la usa, ma purtroppo inutilmente.</div>Ahttp://www.blogger.com/profile/04986620677294548209noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-4447707935466102143.post-32391990057118434082011-06-29T13:32:00.001+02:002011-06-29T15:33:56.789+02:00Compassione<div align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0in;">In rete ho trovato svariate polemiche riguardo una manifestazione, il Veggie Pride, tenutasi a Milano a giugno. Sinceramente ignoro perché l'iniziativa, o forse i suoi organizzatori, scaldino così tanto gli animi. Quello che invece mi ha fatto riflettere è il tenore delle critiche mosse: senza divagare elencandole, il punto che mi ha colpito è che molte vertevano sulla capacità o meno della manifestazione di fare una buona propaganda al veganismo. </div><a name='more'></a>Non mi soffermo su quanto denoti una scarsa cultura politica l'idea che una manifestazione abbia come obiettivo quello di spiegare e propagandare una scelta di vita, mi interessa piuttosto una domanda collaterale: si può convincere qualcuno a diventare vegano?<br />
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</div><div align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0in;"></div><div align="CENTER" style="margin-bottom: 0in;">~ o ~ o ~ o ~</div><div align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0in;"><br />
</div><div align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0in;">Poco tempo addietro ho ricevuto un forte scossone, leggendo – con non poche difficoltà – un testo di Ralph Acampora, <a href="http://www.oltrelaspecie.org/fenomenologia.htm">Fenomenologia della Compassione</a> (ed. Sonda), e tutto sommato credo che lo sconvolgimento procuratomi sia collegato proprio alla suddetta domanda.</div><div align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0in;">Probabilmente gran parte delle persone che parlano e si attivano per convincere più gente possibile a diventare vegan si muove avendo in mente la medesima idea: il processo di cambiamento individuale è strettamente razionale, anzi, intellettuale; e di conseguenza il cambiamento lo si stimola con gli strumenti della logica, dopo aver svolto una prima fase informativa. In pratica: ti faccio vedere delle cose che non conoscevi, poi ti convinco di come da queste cose ne deve necessariamente (logicamente) discendere che l'unica scelta accettabile sia di diventare vegan. Evidentemente – aggiungo: purtroppo – così non funziona, e questo credo che chiunque abbia fatto un po' di attività possa confermarlo. Dove è, allora, il problema?</div><div align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0in;"><br />
</div><div align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0in;"></div><div align="CENTER" style="margin-bottom: 0in;">~ o ~ o ~ o ~</div><div align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0in;"><br />
</div><div align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0in;">Quello che ho tratto dalla lettura di Acampora è che tipicamente l'uomo della nostra epoca vive nella convinzione del primato dell'intelletto, inteso come una capacità specifica ed esclusiva dell'uomo, il quale la usa per costruire se stesso: l'idea che ha di sé, l'idea che ha del mondo, l'idea che ha della posizione che deve rivestire nel mondo. Tale idea di intelletto presuppone una separazione netta fra esso ed il mondo sensibile che ci circonda; l'intelletto agisce al di sopra del mondo sensibile, e in fondo non sembra aver bisogno di esso per poter correttamente procedere. L'immagine che abbiamo è quindi lineare, dall'alto in basso: l'intelletto, dalla vetta del suo universo immateriale, costruisce le idee con cui noi, più in basso, decidiamo come interagire con il resto del mondo sensibile – che ovviamente si trova nella parte più bassa (infima) di questo schema.</div><div align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0in;">Quello che invece mi sono trovato a capire, leggendo Acampora, è che il processo con cui formiamo le idee (e quindi la nostra dimensione etica) non può seguire questo schema così netto e gerarchico. Noi siamo prima di tutto un corpo, e tutto ciò che viviamo lo viviamo attraverso di esso, attraverso le sue percezioni. Il continuo scambio con il mondo circostante, che è poi il succo della nostra esistenza, è imprescindibile dalla nostra corporeità. Uno dei fenomeni fondativi della nostra esperienza è proprio la compassione, non certo nel senso cristiano di pietà per i meno fortunati, ma nel senso originario (cum pati) di sentire la sofferenza altrui: una esperienza diretta, non mediata, né derivabile dal raziocinio. Credo che chiunque, pensando ad incrociare lo sguardo di una persona (o di un animale) che soffre, possa capire cosa significa. E' nella nostra stessa dimensione esistenziale la possibilità di percepire direttamente l'altro, in uno scambio in cui il soggetto diventa oggetto dell'azione percettiva, e viceversa, e questa esperienza non può essere derivata per via intellettuale ma solo vissuta.</div><div align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0in;">Dunque, è proprio attraverso questa esperienza diretta che nel corso degli anni costruiamo la nostra concezione del mondo, e la nostra etica. Sarebbe difficile sostenere che, senza questa modalità di essere nel mondo, potremmo lo stesso costruirci l'idea, ad esempio, che è sbagliato uccidere: perché questa non potrà mai discendere da un puro ragionamento astratto, se prima non si è in qualche modo provato sulla propria pelle – o meglio sul e con il proprio corpo – cosa significhi soffrire, e se non si è percepita carnalmente la “sensazione” che anche chi ci sta di fronte può provare questa esperienza.</div><div align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0in;">Per non dilungarmi oltre, penso che questa (stringata) interpretazione porti a dire che difficilmente si potranno cambiare le idee di una persona con delle semplici spiegazioni/informazioni; in fondo credo emerga dalla storia personale di ognuno il fatto che il cambiamento avviene non tanto per via razionale quanto per un processo che riguarda il nostro vissuto reale e concreto, una lenta evoluzione in cui viviamo il cambiamento attraverso l'esperienza.</div><div align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0in;"><br />
</div><div align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0in;"></div><div align="CENTER" style="margin-bottom: 0in;">~ o ~ o ~ o ~</div><div align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0in;"><br />
</div><div align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0in;">Ora, mi rendo conto che probabilmente la mia esposizione di quanto mi è restato dalla lettura di “Fenomenologia della Compassione” è confusionaria e poco organica – e d'altronde siamo in sede di blog, quindi mi si perdonerà se scrivo velocemente nei ritagli di tempo, senza eccessive ricerche e revisioni. Nonostante questo, spero sia emerso qualche elemento per supporre che non basta far vedere il più possibile immagini di mattatoio o urlare più forte che la carne è assassinio; e per cominciare a pensare che forse non si tratta di <i>convincere</i> le singole persone, ma di agire per una società futura in cui ci siano le condizioni per far nascere e prosperare un'etica differente. Un mondo in cui ogni individuo possa vivere delle esperienze tali da consentirgli la formazione di un'etica compassionevole. Il discorso non si conclude certo qui, ma per ora mi accontento di aver cominciato ad abbozzare qualche nota su un tema che trovo particolarmente stimolante.</div>Ahttp://www.blogger.com/profile/04986620677294548209noreply@blogger.com11tag:blogger.com,1999:blog-4447707935466102143.post-40097866545434412602011-06-23T13:19:00.001+02:002011-06-23T13:19:45.997+02:00Progresso<div align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0in;">Leggo la conclusione di un articolo – uno dei tanti che appaiono su quotidiani e riviste varie – che tratta di sperimentazione animale. Chi lo scrive è, ovviamente, uno stimato scienziato; e altrettanto ovviamente difende l'utilizzo degli animali per la ricerca. </div><a name='more'></a>L'ultima riga: [...] là dove gli animali servono, non utilizzarli vuol dire fermare il progresso della medicina. Di fronte ad una conclusione di questo genere, non c'è particolare spazio per repliche ed ulteriori sviluppi.<br />
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</div><div align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0in;"></div><div align="CENTER" style="margin-bottom: 0in;">~ o ~ o ~ o ~</div><div align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0in;"><br />
</div><div align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0in;">Secondo la visione di Karl Popper una teoria scientifica, per definirsi tale, deve essere falsificabile. Ovvero, devono esserci degli esperimenti in grado di dimostrare la sua falsità, in modo che la teoria stessa sia superabile – abbandonandola in favore di un'altra teoria, oppure emendandola e aggiornandola. Se una teoria non è falsificabile, allora non stiamo più parlando di scienza, ma di metafisica, quindi di fede: se non esiste alcun modo di dimostrare la sua falsità, semplicemente bisogna scegliere di crederci o di non crederci per partito preso.</div><div align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0in;">Questa concezione della scienza mi pare molto interessante, sopratutto perché rispecchia una idea che credo sia sufficientemente accettata: la scienza non fornisce verità eterne, ma teorie in continua evoluzione, e che ovviamente per evolversi devono dichiarare fallaci (del tutto o solo in parte) le teorie precedenti. Da questo discende che il lavoro del “buon scienziato” sia paradossalmente (o meglio: contrariamente alla consuetudine cui siamo abituati) non quello di difendere ad ogni costo le proprie teorie, ma l'esatto opposto: cercare in ogni modo possibile errori e fallacie per poter progredire nello sviluppo teorico. Una teoria non è un feticcio da difendere dalle aggressioni esterne come in una guerra di religione, ma dovrebbe essere più simile ad un giocattolo da maltrattare il più possibile per capire come romperlo, in modo da poterne costruire uno nuovo più robusto e meglio funzionante.</div><div align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0in;"><br />
</div><div align="CENTER" style="margin-bottom: 0in;">~ o ~ o ~ o ~</div><div align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0in;"><br />
</div><div align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0in;">Ora, ai miei occhi appare chiaro che chiunque difenda una pratica scientifica “a prescindere” non si sta muovendo in una buona direzione. E questo al netto delle considerazioni riguardanti gli animali. Difendere ciò che era (e che nella vulgata viene anche inteso come “ciò che è sempre stato”) risulta essere l'esatto opposto del progresso. Ed il progresso ovviamente non è definito: non sappiamo cosa ci aspetta e dove ci porterà la ricerca, né con quali metodi lo farà, tutto è ancora da scrivere. Cosa ci impedisce di scrivere queste nuove pagine in modo etico (ovvero: lasciando in pace gli animali) se non il conservatorismo di chi si è abbarbicato sulle pratiche che ha sempre usato, e non è capace di immaginare un futuro in cui il progresso avvenga realmente – il che implica per definizione il cambiamento, radicale o meno, rispetto ciò che era prima? A queste persone non restano che gli anatemi contro il cambiamento, e sebbene molti li accolgano per principio di autorità – rispondendo quindi in modo fideistico alle parole di famosi ed onorevoli scienziati che proprio in virtù della loro posizione sociale non possono che dire “il vero” – in realtà non possiedono altri strumenti per poter fermare il vero progresso. Se poi saremo davvero in grado di inserire l'etica nel futuro della scienza, questo è un altro discorso, tutto da vedere. Per ora basti riflettere su come, per trovare stonate le parole di chi difende la sperimentazione animale, ci si possa anche fermare un passo prima dell'etica.</div>Ahttp://www.blogger.com/profile/04986620677294548209noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-4447707935466102143.post-76942949580115390442011-06-16T22:07:00.007+02:002011-06-23T13:21:00.730+02:00Le parole sono importanti?<div align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0cm;">Periodicamente scatta, sulla stampa nazionale e non, qualche campagna allarmistica riguardante una malattia, una epidemia, un morbo inarrestabile, insomma un qualche accidente che probabilmente ci spazzerà via dalla faccia della terra. E' di questi giorni l'allarme per le morti causate in Germania dal batterio Escherichia Coli, ed è subito partita la caccia all'origine della sua diffusione. Per primo è stato messo alla gogna il cetriolo killer, per la precisione trattasi di cetriolo spagnolo. A distanza di poco tempo – e dopo aver causato un bel po' di danni economici agli agricoltori iberici – l'accusa è stata ritirata per ricadere sui germogli di soia assassini, stavolta di origine tedesca. Quasi immediatamente anche tale sentenza è stata sospesa, pare che neanche i perniciosi germogli siano i veri colpevoli. Unica ipotesi abbastanza certa, che la diffusione del batterio nasca dall'utilizzo di acque inquinate a causa di sversamenti di liquami da allevamenti.<br />
<a name='more'></a></div><div align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0cm;">Nel passato recente ci sono stati molti altri casi di epidemie nate dagli allevamenti, e indissolubilmente legate, almeno nel nome, a questo o quell'altro animale. Influenza aviaria, poi suina, mucca pazza e così via. Ogni volta, nel lessico comune il nome dell'animale è stato identificato con la malattia stessa, benché difficilmente sia stato sottolineato come gli allevamenti siano stati focolai di infezione per le pessime condizioni dei loro occupanti (gran numero di animali stipati in spazi angusti, poca pulizia, alimentazione innaturale e molto altro) e che dunque, in ultima analisi, le bestie non sono perfide untrici bensì le prime vittime.</div><div align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0cm;"><br />
</div><div align="CENTER" style="margin-bottom: 0cm;">~ o ~ o ~ o ~</div><div align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0cm;"><br />
</div><div align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0cm;">Ogni giorno ci sono almeno un paio di morti sul lavoro. Questo avviene senza che i mass media se ne curino troppo, ed avviene quotidianamente; solo in casi particolarmente sensazionali viene dato risalto all'avvenuto, come per la tragedia della ThyssenKrupp. Ma anche in quel caso, la sete di eventi sanguinari e drammatici tipica di TV e stampa nostrana si è stranamente placata subito, e l'argomento caduto nell'oblio. Chissà come mai da Vespa non si è mai visto un plastico della fabbrica torinese, seguito da lunghi dibattiti su come e quanto tempo ci abbiano messo gli operai a morire bruciati. </div><div align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0cm;">Un tempo li si chiamava omicidi bianchi. Oggi è in voga il termine morti bianche. Ma, per citare Moretti, le parole sono importanti: fra <i>morte</i> ed <i>omicidio</i> passa una grossa differenza. La morte è qualcosa di inaspettato ma ineluttabile, qualcosa che capita (di solito, almeno una volta nella vita) e non ci si può far nulla. Ma l'omicidio è ben altra cosa: ha una causa, o meglio, ha un responsabile che colpevolmente o colposamente è responsabile di qualcosa che poteva benissimo essere evitato. Il fatto che la terminologia sia mutata nel tempo ovviamente non è un fatto casuale.</div><div align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0cm;"><br />
</div><div align="CENTER" style="margin-bottom: 0cm;">~ o ~ o ~ o ~</div><div align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0cm;"><br />
</div><div align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0cm;">Pare proprio che il nostro tempo sia ammalato di una forma acuta di infantilismo, per cui nessuno ha mai responsabilità o colpa di quello che avviene. E' molto rassicurante non dover mai rispondere delle proprie azioni, ma è anche meglio se si può scaricare la colpa su altri – e fortunatamente abbondiamo di Altri a cui addossare pesanti fardelli. Il primo passo pare essere sempre quello di ritoccare il linguaggio in modo che il concetto di responsabilità non sia più veicolato: i proprietari di una fabbrica non si curano di spendere qualche soldo per gli impianti di sicurezza, e a seguito di un incendio muoiono degli operai? Non è certo un omicidio, ma una semplice morte, insomma, è il Fato che ha voluto così. Amen. Preghiamo, e scordiamoci di poter anche solo pensare che i padroni della baracca abbiano una qualche responsabilità. Il livello successivo consiste nello spingersi un po' oltre, e modificare ulteriormente il linguaggio per suggerire che la colpa sia di qualcun altro – possibilmente qualcuno che non sia in grado di difendersi né di controbattere le accuse. E così avviene che se a causa dell'inquinamento prodotto dall'uomo si diffonde l'Escherichia Coli, invece di fare mea culpa per lo mancanza assoluta di controlli su ciò che avviene negli allevamenti (e su quello che riversano nell'ambiente), si addita il cetriolo come pericoloso killer. Certo sarebbe scortese accusare chi inquina suolo e acque – metti poi che perda il lavoro, lo avremmo sulla coscienza per il resto della nostra vita – mentre l'indifeso cetriolo sembra l'elemento ideale a cui addossare tutte le peggiori nefandezze. Lo stesso vale per la mucca, bollata con l'infamante epiteto di pazza, la quale a forza di essere accostata al morbo diviene, per contiguità lessicale, la responsabile della malattia. Non sia mai che ci sfiori il dubbio, e che si dica che tutto è nato per colpa dell'uomo – di come ha organizzato gli allevamenti nel tentativo di massimizzare i profitti fregandosene di tutto il resto – e di come la misera untrice bovina abbia in realtà pagato il prezzo più alto, dato che probabilmente non si possono neanche quantificare il numero di animali abbattuti “per sicurezza”.</div><div align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0cm;"><br />
</div><div align="CENTER" style="margin-bottom: 0cm;">~ o ~ o ~ o ~</div><div align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0cm;"><br />
</div><div align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0cm;">Dunque cetrioli, germogli vari, mucche, maiali sono tutti – sfortunatamente per loro – accomunati da un particolare: sono Altro dall'essere umano, e per questo predestinati a prendersi colpe non loro. Perché per l'uomo a quanto pare l'importante è poter scaricare le responsabilità sempre e comunque su tutto ciò che è Natura (qui intesa nell'accezione semplice di tutto-il-non-umano), et voilà, non c'è più bisogno di chiedersi se quando accade qualche disastro di proporzioni rilevanti forse qualcosa di sbagliato lo avremo pur fatto. Almeno finché i cetrioli non si incazzeranno davvero, e allora vedremo...</div><div align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0cm;"></div>Ahttp://www.blogger.com/profile/04986620677294548209noreply@blogger.com0